Parola d’Artista: Ciao Alessandro che senso ha fare una mostra a tema?
Alessandro Bellucci: Il tema del gioco assume un valore simbolico di vincolo, una cornice entro cui definire i parametri per sviluppare il tema: un contesto in cui costruire, attorno al soggetto scelto, un’idea da portare alla luce con forza e chiarezza, assicurandosi che l’opera esposta non risulti “fuori tema”. In questo caso, la scelta tematica si configura come una griglia su cui l’artista dovrebbe basare la propria opera, ma anche superarne i confini: trasgredire la geometria, uscire dalla cornice per esplorare nuovi linguaggi, opporsi, combattere e, se necessario, scontrarsi.
A questo proposito, mi piace citarti un passo dal libro di Bartezzaghi, che parla del grande maestro della parodia, il regista Mel Brooks:
“nel film Mezzogiorno e mezzo di fuoco (il regista) mette in scena una rissa che si estende al punto da uscire dal set, invadere il set vicino e uscire anche dal complesso di studi della Warner Bros e dilagare nelle vie di Burbank. L’uso farsesco dell’enunciazione filmica è una buona rappresentazione del salto di livello fra quel che appare e quel che è, nei fatti di agonismo. Il senso comune vede lo scontro; uno sguardo più analitico scorge l’esistenza di una cornice in cui lo scontro avviene”.
Non credo di aver vincolato gli artisti ad una “cornice” straordinariamente stretta e oppressiva proponendo il tema del gioco. Semmai, posso aver offerto un punto di vista “altro” rispetto alle opere che ho selezionato, cercando una mia griglia interpretativa proprio attraverso l’osservazione delle opere stesse.
Pd’A: Perché proprio il gioco?
A.B.: Il gioco è un tema sconfinato, in cui si può introdurre di tutto. Tempo fa avevo acquistato il libro di Johan Huizinga, Homo Ludens. Il volume giaceva a prendere polvere, come molti altri nella mia libreria; spesso si acquistano molti più libri di quanti se ne potrebbero leggere in un’intera vita. Ho iniziato a leggerlo quando Angela Wang mi propose di curare una mostra per Yurta lo scorso anno. Fu un’autentica rivelazione.
Per la mostra invece sono partito da un altra lettura fondamentale sul tema del gioco, e cioè dai quattro punti che Roger Caillos traccia nel suo libro “Il gioco e gli uomini: la maschera e la vertigine”: l’agon, l’alea, la mimicry, l’ilinx. Sintetizzando i quattro punti: il gioco è un tema che permette a chiunque di immaginare mondi, di travestirsi in qualsiasi forma (MIMICRY); di partecipare a sfide e competizioni (AGON); di liberarsi dalle catene fisiche e mentali, abbandonandosi a giochi sfrenati (ILINX); di intrattenersi in qualcosa che apparentemente non ha alcun senso per la nostra sopravvivenza esponendoci al rischio dell’ebrezza dell’azzardo (ALEA).
Il gioco, a mio parere, si manifesta come una dinamica preservativa per eludere il ridicolo della vita reale. Il ridicolo è sempre presente nella nostra vita quotidiana; lo sperimentiamo ogni giorno e spesso siamo costretti a schivare i suoi schizzi, non sempre riuscendoci e subendone spesso le conseguenze. Gli uomini agiscono troppo spesso come un gregge compatto, seguendo comandi assurdi e comportandosi di conseguenza in maniera sciocca.
Il gioco ci apre a una possibile semplificazione dell’assurdo, coinvolgendoci in sfide più o meno agonistiche dove le regole possono essere chiare, estremamente complesse o addirittura enigmatiche, ma sempre circoscritte al suo ambito d’azione. Tuttavia, c’è sempre la possibilità di uscire da qualsiasi gioco, interrompendo il flusso di piacere o vertigine e ritornando alla realtà. Nel gioco, abbiamo possibilità infinite e possiamo indossare qualsiasi maschera, imitando animali, spiriti, uomini d’affari, assassini, preti, montagne, cristalli, virus, aumentando le nostre facoltà fino all’infinito, con il potere di distruggere o creare, viaggiare nel tempo, diventare invisibili o immortali. L’insieme di regole che si stabiliscono in un gioco permette a chi le accetta di rimanere “in gioco”. La possibilità di barare è sempre presente, forse ricercata, ma a volte non soddisfa l’ego o non diverte, poiché è proprio nell’aderire pienamente e totalmente alle regole che si prova la massima soddisfazione nel giocare. Nella vita reale, barare, imbrogliare, falsificare è spesso considerato un vanto, una medaglia al valore che si sistema sul taschino di chi la fa franca, dell’imbroglione seriale, del mentitore di professione. L’onestà è spesso paragonata alla stupidità.
Il gioco, secondo Johan Huizinga, deriva da rituali ancestrali in cui gli uomini svolgevano cerimonie sacre o amministravano la giustizia in un luogo apposito, come un cerchio, dove chi entrava doveva rispettare delle regole. Nel gioco, così come nel rito e nell’estasi della creazione artistica, si crea una realtà altra, nel mondo ma non del mondo; uno spazio circoscritto e allo stesso tempo infinito, dove poter sperimentare e imparare la vita in tutte le sue manifestazioni. Come sanno bene tutti i bambini del mondo. Anche Jean Baudrillard delimita lo spazio arte-gioco in un ipotetico cerchio e scrive: “Siamo ancora capaci di «notare» la cornice del quadro, ultima differenza tra arte e mondo, ultimo confine tra simulacro e verità” (E.L. Francalanci, p.2). Nel libro Stile moderno, Georg Simmel scrive che “l’attenzione del filosofo, in questo caso, non si focalizza piú sul quadro o sulla statua, ma sulla cornice e il piedistallo, o su altri oggetti-soglia come il manico della brocca o i mobili di arredamento, in cui sfuma l’opposizione netta tra fruizione estetica e uso pratico.”
L’arte, dunque, è tutto ciò che sta intorno e dentro una cornice o in sua prossimità? L’opera, in piena autonomia (forse anche in autonomia da chi la crea), si forma e diventa arte, anche se si trova nell’“orizzonte degli eventi” dove ogni cosa può perdere senso e in cui non sembrano esistere cerchi o limiti, ma solo sfumature, nebbie, ectoplasmi. Chiunque abbia cercato di definire la parola “arte” si è sempre trovato a descrivere i confini in cui essa si materializza attraverso le opere degli artisti, ma nessuno è riuscito a darne una definizione netta, perché l’arte sfugge a ogni definizione.
La cornice nel gioco ha un ruolo fondamentale nella realizzazione della magia che si manifesta quando si “entra in gioco”. Molti bambini, per esempio, giocano a fare finta che una scopa tra le gambe rappresenti un cavallino e che il bastoncino in mano sia una spada. Il bambino entra in questa cornice di gioco sapendo bene che ciò che ha tra le gambe è una scopa e che quello che tiene in mano è un bastoncino, non una spada. Il piacere del gioco risiede tutto in questa sfumatura, in questa ebbrezza di mimetismo, dentro la cornice che delimita il gioco.
Nel contesto del gioco, chiamiamo “cornice” ciò che definisce i confini spaziali e temporali dell’attività ludica. Questa cornice comprende: gli eventi che precedono e seguono il gioco, le regole che lo governano, eventuali sistemi di controllo per il loro rispetto e l’eventuale presenza di spettatori che osservano o interagiscono.
Pd’A: Questa esposizione ha già avuto un suo primo episodio nel corso dell’estate in che cosa è cambiata rispetto alla prima versione?
A.B.: La mostra “Ludus – la maschera e la vertigine” è un’evoluzione della precedente esposizione “Del ludico dunque gioco”, realizzata la scorsa estate presso Yurta-Relazioni Culturali a Serre di Rapolano. Questo innovativo allestimento si arricchisce ulteriormente grazie al contributo e alle opere (alcune inedite) di 17 nuovi artisti oltre ai 20 della precedente mostra con oltre 40 opere esposte e di cui alcune site-specific installate sulle mura della rocca.
La mostra avrà luogo nei locali della Rocca Aldobrandesca di Piancastagnaio, con inaugurazione venerdì 6 dicembre 2024 e chiusura prevista per il 30 aprile 2025. Lo spazio espositivo si articolerà su dieci vani. L’ultimo piano della torre offrirà al visitatore una suggestiva terrazza panoramica. La mostra si estenderà su circa 350 metri quadrati.
Anche in questa mostra abbiamo esposto le opere dell’artista Vettor Pisani, morto suicida nel 2011. È un piccolo omaggio, una capsula del tempo che ci riporta agli anni ’70-’80 dell’arte del secolo scorso. Vettor era molto legato alla Toscana e in particolare a Serre di Rapolano in cui aveva realizzato, alla fine degli anni novanta, la sua casa-museo nelle cave di travertino: il Virginia Art Theatrum o Museo della Catastrofe.
Pd’A: La Rocca Aldobrandesca che la ospiterà a Piancastagnaio nata con obbiettivi bellici in che modo “entra in gioco” nel tuo progetto curatoriale?
A.B.: Ogni mostra è una sfida, un agone in cui mettere in campo proposte curatoriali complesse, ma soprattutto esporre le opere degli artisti, valorizzarle, contestualizzarle nello spazio espositivo. Una mostra sul gioco, realizzata in una Rocca del Quattrocento, dove il concetto stesso di gioco – inteso come svago, relax e socializzazione – era interdetto o, quantomeno, poco adatto, potrebbe sembrare un’idea assurda. D’altronde, questa rocca era destinata esclusivamente alla prigionia o alla difesa della Val d’Orcia dai continui attacchi degli assalitori. Ogni pietra di questo castello è stata progettata per resistere all’occupazione e alla distruzione di qualsiasi nemico che volesse violarla.
La proposta di una mostra sul gioco potrebbe, quindi, apparire a prima vista poco adatta a questo contesto. Tuttavia, ritengo che questo splendido esempio di architettura bellica senese possa essere reinterpretato come un grande elemento ludico: uno spazio come un gioco di guerra, dove la posta in gioco non è la vita ma l’arte. Purtroppo, la guerra è stata, ed è tuttora, uno dei “giochi” prediletti dall’umanità, come dimostrano i conflitti attuali, dal Medio Oriente ai Paesi slavi (e non solo), con il rischio disastroso dell’uso di armi nucleari. Un gioco tragico, sanguinoso, mortale, inutile.
Credo che sia importante collocare questa mostra in una struttura del genere, non per una scelta casuale, ma perché il luogo stesso invita a una riflessione più complessa. Qui, le opere d’arte trovano una collocazione significativa e contrapposta rispetto al passato bellico del castello. Non fraintendeteci: non ci interessa proporre opere “pacifiste”, ma comprendere il valore universale che è intrinseco nell’opera d’arte, al di là di un messaggio effimero che può manifestarsi ai nostri occhi contemporanei limitati all’orizzonte percettivo del nostro sguardo. Marc Bloch riesce a darci una definizione esatta sulla limitata area del nostro sguardo contemporaneo affermando che
“la storia non è un corteo che si osserva dall’alto e lo storico non è un signore che guarda il corteo dal suo balcone, al fine di descriverlo con esattezza e oggettività. Lo storico è un uomo come gli altri che cammina dentro al corteo, che si chiede che cosa sia accaduto nel corso di un viaggio lungo e accidentato; quale sia dunque la direzione e la meta del corteo stesso; in ultima istanza – se possibile – quale sia il senso definitivo del cammino.” (Caroli, p.12)
Oltre dall’impossibilità di percepire a pieno il nostro tempo contemporaneo se non attraverso una ristretta visione teleologica, c’è anche l’obiettiva difficoltà di comprendere l’arte contemporanea lasciando spesso il riguardante solo di fronte a qualcosa di nuovo, diverso, incomprensibile, fastidioso, estraniante. L’arte è incomprensibile e indigesta? In questo caso ti voglio citare un passaggio del libro di Angela Vettese (arte contemporanea):
«Non resistendo al fenomeno che gli psicologi chiamano «dissonanza cognitiva», molti studiosi sono arrivati a dire che l’arte non esiste più: per chi è schiavo delle proprie certezze, la distanza tra ciò che si vede nei musei d’arte antica e ciò che viene definito «arte contemporanea» crea ansia. Ecco allora che si cerca il colpevole: la speculazione economica, la perdita di valori, la cultura che langue. E come afferma Giorgio Agamben, in parte il sospetto è generato dall’idea stessa di «contemporaneo». In effetti, tutti vorremmo avere una pietra di paragone sulla cui base verificare che cosa ha valore e cosa non lo ha.»
Il mio obiettivo curatoriale è quello di allestire le opere in modo di farle dialogare con l’architettura militare della rocca Aldobrandesca. Vorrei trasformare i locali austeri della fortificazione senese – almeno per la durata della mostra – in una wunderkammer di oggetti che ci parlano di gioco, dello stupore e del giocare, esclusivamente attraverso il linguaggio dell’arte.
Concludendo mi piace ricordare che quest’anno si festeggiano i cento anni della prima edizione del Manifesto surrealista,1924/2024.
Il Manifesto surrealista del 1924 rimane un’opera rivoluzionaria, celebrando la vita, il sogno, l’amore, l’arte, la follia e la libertà contro la guerra e ogni potere oppressivo.
Nel Surrealismo, il gioco diventa forma, e la forma è un gioco che si realizza oltre i singoli partecipanti. Il giocare insieme, abbracciando liberamente regole e segni, genera curiosità in uno spazio-tempo autonomo, capace di accogliere i misteriosi intrecci dell’esistenza e dell’esperienza. Per tutta la sua durata, la stagione surrealista si è prestata a Giochi molteplici. Il più inventivo e produttivo è quello de Cadavres exquis che il Dictionnaire abregé du surréalisme, definisce “gioco con carta piegata che consiste a far comporre una frase o un disegno da parte di parecchie persone senza che nessuna possa tener conto della collaborazione o delle collaborazione delle precedenti.”